Mio padre è sempre stato molto tradizionalista nel suo lavoro in cantina, anche se fu lui, agli inizi degli anni ‘70 a decidere di imbottigliare una parte della produzione, in un periodo in cui il vino si vendeva principalmente sfuso.
Questo modo di lavorare, legato alla vecchia tradizione contadina, è stato il modello che ho seguito fin da ragazzino…
…e se certamente oggi la tecnologia ci aiuta molto, le tecniche che mio padre utilizzava, il suo approccio, e in generale direi la sua attitudine, sono rimaste invariate e sopravvivono nei miei gesti quotidiani.
Penso che in generale, il punto chiave del suo, e quindi del mio modo di lavorare, sia di tenere le cose semplici, evitando di “toccare” e “lavorare” il vino.
In poche parole lasciare che la natura faccia il suo corso, cercando di interferire il meno possibile.
Dall’Uva all’invecchiamento
i primi passi del vino
Dopo la vendemmia, trasportiamo i frutti della raccolta in cantina, dove vengono pigiati e diraspati (o pressati nel caso dei vini bianchi).
Dopodiché produciamo un primo mosto di avviamento con 5-6 quintali di uva.
Questo mosto ci serve da inoculare nelle vasche di macerazione quando c’è bisogno di sollecitare il processo di fermentazione, cosa che ci permette di non aggiungere alcun lievito (o altre sostanze estranee) in questa fase molto delicata.
A differenza di alcune tecniche che andavano di moda qualche anno fa, preferisco fare macerazioni sulle bucce piuttosto lunghe, in modo da estrarre per bene profumi e colore dalle bucce, e dare ai vini una maggiore longevità senza bisogno di aggiungere conservanti sintetici.
Finita la fermentazione il mosto ha completato la propria trasformazione in vino, ed è arrivato il momento di invecchiarlo:
in acciaio il Dolcetto, il Nebbiolo, l’Arneis e la Barbera (quest’ultima si affina per un breve periodo in barrique), e ovviamente in legno, rigorosamente botte grande, il Barolo.
Intorno al mese di Febbraio poi, faccio prendere un po’ freddo al vino.
Lasciamo scendere la temperatura di una decina di gradi, solitamente da 15° a 5°, in modo che il residuo solido precipiti in fondo alla vasca.
Con questa tecnica evitiamo di chiarificare con gelatine o prodotti simili – come ti ho detto non mi piace aggiungere elementi estranei nelle mie vasche – o di fare delle filtrazioni troppo aggressive, che solitamente impoveriscono il vino delle sue proprietà organolettiche.
Il Dolcetto secondo me
La nostra è terra da Dolcetto, un vino che una volta si beveva in ogni occasione: mentre si lavorava nei campi, durante i pranzi, all’osteria…
E’ il vino che, per come la vedo io, meglio esprime l’animo contadino di questa parte di Langa.
Qui a Dogliani, vista la vocazione particolare del territorio e le peculiarità del vino che vi viene prodotto, il Dolcetto si è meritato una sua denominazione “speciale”: il Dogliani DOCG.
Noi ne produciamo ben 3 qualità diverse: il DOCG “di base”, che è fresco da bere, fruttato, non troppo impegnativo.
La Riserva “‘L Sambù”, dove puoi trovare una struttura più presente e complessa.
E il “Superiore”, anche lui più strutturato, in cui si sentono le note speziate dei vini importanti e si può pensare di invecchiarlo per qualche anno.
Il segreto per un buon dolcetto
Il Dolcetto è un vino fresco, giovane, e secondo me le sue qualità si sviluppano principalmente durante la macerazione, che non deve essere troppo breve, ma nemmeno troppo lunga, perché altrimenti rischia di creare quella sgradevole sensazione di allappamento in bocca.
Per i miei vini, ho notato che un tempo compreso fra gli 8 e i 10 giorni di fermentazione sono l’ideale per raggiungere quel profumo fruttato e gusto bilanciato che lo caratterizzano.
Il mio sogno è quello di tornare a fare il Dolcetto come lo faceva mio nonno, affinato e ammorbidito in botte grande: vedremo di affrontare anche questa “sfida” nei prossimi anni.