Oggigiorno il vino ha raggiunto un livello di popolarità che lo colloca in tutti i settori della vita, in ogni parte del mondo – il vino è scienza, è storia, è religione, è moda, è denaro – a tal punto da allontanarsi in modo drastico, gran parte delle volte, dalla propria forma tradizionale.
Forse è proprio in queste colline che più permane la sua visceralità, quella di alimento, del “più ce n’è meglio è”.
La Langa, terra sempre più riconosciuta per i tratti genuini, ha fatto del vino la sua arma vincente, costruendo nel tempo il giusto equilibrio tra innovazione e tradizionalità.
E proprio dalla Langa nasce il sapere della “nostra” famiglia – perdonate le virgolette ma mi considero ancora un figlio adottivo – una famiglia che nel tempo ha saputo ascoltare la terra, rispettarla e riprodurne le note in un calice di vino.
Il nonno Celso
Il tutto ebbe inizio nei primi anni del ‘900.
Non si sa il perché o il percome la scelta di Nonno Celso ricadde proprio sulla cascina Cà Neuva di Santa Lucia, ma il sesto senso degli uomini del tempo riguardo alla terra fertile è cosa vera e risaputa.
Sappiamo che coltivava cereali, frutta e ovviamente verdura, e in più aveva “le bestie”, come si dice qui da noi, ma non conosciamo i dettagli della sua vita di allora, se non cosa abbiamo ricostruito da lettere e documenti.
In modo particolare la lettera del 1916 di Matteo Ghiglione di Entracque, che ci conferma due cose: Celso produceva già vino, e lo produceva buono.
Dalla lettera risulta infatti che questo signore, proprietario probabilmente di un osteria, volesse acquistare da Celso 20 brente (circa 1000 litri) di Dolcetto, rimasto stupito dalla sua qualità.
Sergio ricorda una delle cose che il nonno – gran lavoratore, schivo e riservato – soleva dire, nel suo piemontese bofonchiato: “Le persone vanno prese per la gola”.
Ed ecco quindi, che già in tempi poco prevedibili, gli uomini Abbona credevano nel potenziale del vino.
Il padre Celso
Come accadeva ai tempi, la passione e la perseveranza del lavoro agricolo – oltre che il nome – furono trasmessi di padre in figlio.
Il padre di Sergio (che chiamerò Celso II a scopo di chiarezza), giovane entusiasta e con tanta voglia di fare, fece tesoro dei saperi di Celso e li raccolse poco per volta, osservando i passi silenziosi, ma sicuri, del padre.
Decise poi, una volta grande abbastanza per prendere le redini dell’azienda, di riformulare l’eredità e di credere nel suo principale interesse: il vino.
Erano gli anni ‘50 quando lentamente la produzione dei cereali lasciava posto a nuove vigne, e bastò la svolta del ‘63 – la nascita delle DOC – a convincere il padre di Sergio a imbottigliare il vino e farne l’attività principale di Cà Neuva.
Scelta ai tempi sicuramente coraggiosa e lungimirante, che lo vide ampliare gli ettari vitati, ammodernare la tecnica viticola e piantare la nuova varietà delle Langhe, la Barbera.
Di lì a poco il vino era sulla tavola di tutti, e il giovane Sergio ci cresceva assieme, sotto lo sguardo attento di due grandi uomini, Celso e il figlio, fieri della continuità del loro testamento.
Sergio
Quando oggi Sergio guarda indietro riconosce i tratti dei due predecessori, e l’influenza che ognuno dei due ha avuto sul suo modo di vivere il vino.
Da una parte la serietà di nonno Celso, con la testa nel lavoro e poco tempo da perdere in convenevoli, ma una grande capacità di comunicazione con la sua amata terra.
Dall’altra il padre Celso II, con le mani impregnate di vigna e il sorriso in volto, sostenitore del vino come mezzo di convivialità e della cantina come spazio ospitale.
Sergio, che ha avuto modo di seguire la lenta trasformazione del vino da alimento a scienza olistica, abbraccia oggi le correnti innovative e si apre allo sviluppo nella direzione futura, ma con lo sguardo ben saldo sulla tradizione che porta sulle spalle.
Osserva, chiede, ascolta, non si sente mai “arrivato”.
Include le figlie nel lavoro, che sempre più si apre alle figure femminili.
Accetta consigli, ma conserva il potere dell’ultima parola.
Sergio accoglie gli ospiti in cantina con il calore e l’ospitalità del padre, ma con la riflessività del nonno.
Arrivano persone di tutti i tipi: ci sono quelli che vengono qua per imparare, e chi viene per dimostrare di sapere. Io le mie attenzioni le dedico ai primi, anche se non mi considero un insegnante. Metto le persone in condizione di recepire, li aiuto a capire le basi per una percezione indipendente. Siamo una macchina perfetta, il corpo bypassa ciò che non piace: occorre fermarsi, sviscerare il vino e coglierne l’essenza. Sergio Abbona